martedì 3 dicembre 2013

Salario minimo garantito e politiche energetiche in Germania

Bruce Chatwin - photographies et carnet de voyages. Grasset, 1993 - 2

A due mesi dalle elezioni, la Germania riesce a chiudere un accordo fra i due maggiori partiti nazionali per la costituzione di un governo di coalizione, anche lì a larghe intese. CDU, CSU e SPD chiudono un accordo di pochi punti, i cui principali sono quello sull'estensione della produzione di energia da fonti rinnovabili (la SPD voleva che si raggiungesse l'80% della produzione totale, ma l'accordo è stato modificato al ribasso per una quota del 55-60%), e quello del salario minimo orario, fissato a 8,5 euro. E di seguito, di questi 2 punti programmatici discuteremo, articolando un commento a riguardo.




Le elezioni tedesche di fine settembre hanno confermato la leadership del cancelliere uscente Angela Merkel e del suo partito, ma hanno disfatto la colazione con i liberali del FDP che non sono confermati in Parlamento non avendo superato la soglia di sbarramento del 5% prevista dal sistema elettorale tedesco.
A ragion veduta, la compagine di destra o conservatrice in Parlamento è minoritaria, poichè SPD, PDS e Verdi avrebbero, seppur risicata, una maggioranza parlamentare per costituire un governo alternativo a quello conservatore che ha guidato la Germania negli ultimi anni. Purtuttavia, si sa che la sinistra si fida di più dell'avversario che di quanto le può essere più prossimo politicamente. E dopo una manfrina durata 2 mesi, SPD chiude un accordo in 8 punti con la CDU/CSU che sottoporrà a valutazione referendaria della sua base, anche lì in Germania presi ed afferrati dalla foga deresponsabilizzante dell'esercizio della democrazia diretta... quando non serve.

E così, dopo vari mercanteggiamenti sulle poltrone da occupare, pochi giorni fa arriva notizia che l'accordo trovato sul cosidetto salario minimo c'è: fissato a 8,5% l'ora (lorde, naturalmente!). E l'accordo certamente sarà rappresentato come un grande strappo al ceto padronale, se ad Ottobre il CEO della Daimler Zetsche si affrettò a dichiarare, nell'annuale appuntamento delle case automobilistiche tedesche a Monaco di Baviera, che la fissazione di un salario minimo avrebbe comportato nel lungo periodo la perdita di posti di lavoro. A fargli eco il CEO della Audi Stadler, che ha sollecitato a far restare flessibile il mercato del lavoro, affinchè l'opportunità che entro il 2020 l'egemonia dell'industria automobilistica tedesca in Asia e nel Pacifico possa consolidarsi, in vista del prospettato aumento del 50% di consumo di automobili.

La Germania è accusata di aver applicato una politica di contrazione salariale dura: dal medico all'addetto alle pulizie, tutti si sono visti ridurre la crescita dei loro salari e stipendi reali. Le tasse individuali sono aumentate, mentre quelle sulle società sono diminuite. I consumi al dettaglio sono minori di quelli del 1994, e non per magia ma per via di una politica che da governo in governo ha dettato il mantra: esportare, esportare esportare (oppure, se preferite, controllare la ineluttabile decrescita senza cambiare modello di consumo e di produzione!!!).

La Germania oggi ha un surplus commerciale pari al 7% del suo intero PIL. Più di quanto fissi l'Europa come quota massima stabilita al 6%. Oggi la Germania è il 3° più grande Paese esportatore mondiale. E questa attitudine non solo crea e sta continuando a creare squilibri nell'area europea, ma anche nell'economia mondiale, e li sta creando anche nella stessa economia tedesca. Un'economia centrata sulle case automobilistiche: oggi queste politiche centrate sull'esportazione hanno sì creato posti di lavoro, ma part-time e a bassissimi salari. Come dichiara l'economista Adam Posen, oggi la Germania ha la più alta percentuale di lavoratori con un salario sotto la media europea. Parimenti, continua Posen in questo commento, gli investimenti sono stati ridotti. Inoltre, lo stesso capitale umano e l'investimento nella scuola è andato riducendosi. In poche parole, la competitività e la produttività tedesca è tutta riposta nel forte taglio del costo del lavoro e non nella creazione di valore!!!  Insomma, tutta una serie di fattori stanno mettendo in luce le profonde crepe del sistema di crescita tedesco che vuol diventare modello dell'intera Europa.

Possiamo stare certi che questo salario minimo a 8,5 euro lorde all'ora sarà l'occasione per la delocalizzazione delle imprese automobilistiche in oriente, e per finire di dare il colpo di grazia a quelle necessarie politiche di riforma della produzione e dei consumi, oltre che dello stesso welfare, condotte da politiche avanzate e non di retroguardia come quelle conservatrici. Ma una difettosità della sinistra europea è il suo carattere... sinistro!

E gli stessi CEO sopra menzionati sono anche partiti all'assalto degli incentivi sulle rinnovabili che aggravano i costi dell'energia. Ed infatti, un altro delicato punto di discussione per l'accordo politico-governativo fra SPD e CDU sono state le politiche energetiche.

Mentre negli Stati Uniti si produce energia attraverso lo scisto, con i costi ambientali che questo comporta nel breve e lungo periodo, riuscendo a ridurre i costi energetici per le industrie, in Europa e sopratutto in Germania le esenzioni per le industrie per il pagamento delle incentivazioni alle fonti di produzione di energia rinnovabile (ricadute tutte sulle famiglie) stanno per essere rimosse, e questo sta mettendo in fibrillazione le imprese tedesche e la competitività guadagnata finora con le politiche prima descritte. Nel 2000 si fissò un mix di produzione energetica da fonte rinnovabile per il 2020 del 35%, che nel 2050 dovrebbe raggiungere l'80%. E negli accordi fra SPD e CDU questo punto è apparso essere centrale, seppur rivisto al ribasso.

Attualmente la politica energetica tedesca di transizioni verso l'utilizzo sempre più diffuso delle rinnovabili, chiamata Energiewende, oltre che far crescere i sussidi che vanno ai produttori di energia da fonti rinnovabili sta mettendo sotto pressione la stessa rete di distribuzione, che non è stata progettata e costruita per la diffusione produttiva estesa, ma per pochi e grandi nodi di produzione. Gli stessi che, oltrettutto abbiamo in Italia.
La politica di incentivazione delle rinnovabili in Germania costa attualmente ogni anno 100 miliardi di euro, facendo costare alle famiglie un kilowattora ben 0,265 euro, di poco più basso a quello più costoso d'Europa, quello danese.

Naturalmente in Germania le industrie energivore sono esentate dal pagare, sul costo energetico, questi incentivi alle rinnovabili... paradossalmente promuovendo proprio quelle produzioni inefficienti dal punto di vista energetico. L'esenzione, che è fissata finora ad un tetto di consumo di 10 gigawattora all'anno, sembra che la si voglia adesso abbassare fino a 1 gigawattora di consumo annuale. Secondo alcuni rapporti, anche i campi da golf hanno beneficiato di queste esenzioni!

La commissione europea ha, seppur debolmente, detto che queste esenzioni possono anche raffigurarsi come aiuti di Stato, che sappiamo essere vietati dai trattati europei. Questa denuncia, insieme alla riduzione del tetto esente, sta mettendo in preoccupazione le industrie che finora ne hanno beneficiato, gridando che questo comporterà ulteriori aggravi dei costi per le imprese tedesche, perdita della competitività e quindi... dei posti di lavoro. E Merkel si è affrettata a dire che si batterà contro la commissione europea che ha definito aiuti di Stato l'esenzione per le industrie energivore... seppur questi costi stanno ricadendo sulle famiglie, costi che stanno raggiungendo i 30 cent di euro danesi per kilowattora.

La lezione è chiara: non può esserci nessuna politica di governo della decrescita senza una parallela politica di equità!




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